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“Lu callècchie”

Tenevo sempre sul comodino della mia piccola camera dal letto/studio una penna e un blocchetto. Era fatto di carta riciclata, erano il retro di manifesti o di altre stampe ritagliati a misura di blok-note e tenuti fermi da un punto di spillatrice. Capitava, prima di addormentarmi, di appuntare qualcosa tratta dalle letture fatte a letto o di segnare qualche idea o qualche spunto di vario genere. 

La sera del 1 ottobre di alcuni anni fa venne fuori di getto questa poesiola, alquanto strampalata e senza alcuna pretesa. Venne così, senza correzioni ma anche senza alcun intento poetico o narrativo. Il giorno dopo la copiai a macchina e da allora l’ho conservata come un ricordo simpatico e sempre caro. 

 

Tanti di noi hanno in un cassetto almeno una poesia della quale, spesso, a distanza di anni, un po’ ci si vergogna. Sicché quel cassetto resta chiuso, negando la luce a quelle parole che pure un giorno hanno avuto un perché. Non è questo il caso. 

Questi poveri versi pensati e scritti nella nostra lingua, quella nella quale abbiamo ascoltato le parole dolcissime dell’infanzia e che per prima abbiamo imparato a parlare, hanno avuto anch’essi un perché. Ed è ancora tale e non deve certo vergognarsi tanto da essere seppellito in un cassetto: è l’amore per Miglianico, la mia Miglianico.          

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