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“Lu spaccaprete” di Cesidio D’Amato

È davvero inghiottita nel gorgo della memoria la figura dello spaccapietre. In qualche modo di dire forse resta ancora ma nei fatti e nel racconto della stragrande maggioranza di quelli che conosciamo “lu spaccaprete” non c’è più, da non pochi anni. L’efficacia descrittiva dei versi creati dal maestro Cesidio D’Amato però ce lo mostra, inquadrandolo in una cornice che, invece, conosciamo bene. È quella della strada che porta a Chieti, diversa oggi per dimensione e per altri aspetti, ma sempre la stessa da più di un secolo e mezzo a questa parte tragitto di viaggi fatte molte e molte volte.

 

Questo personaggio resta senza la dignità della citazione del suo nome. Mentre la sua descrizione, soprattutto quella del suo incessante lavoro tutto fisico, è efficace, lo rende vivo ai nostri occhi, oggi quasi attoniti davanti alla sua figura.

Nella contemplazione che il nostro poeta fa di quel lavoratore, “lu spaccaprete”, c’è un qualcosa che sembra rendergli omaggio, che lo solleva da quella condizione di fatica, di sudore, della posizione china sotto un sole impietoso, di quel silenzio imposto alla parola dal rumore, ora sordo ora sonoro, delle pietre percosse vigorosamente col martello: è quando lo vede risalire la collina verso casa, “gne ‘nu furnàre biànche di farine”. Nel pane che il fornaio fa c’è tutta l’umanità e la spiritualità che viene riconosciuta così all’ignoto “spacaprète”.

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