A sette anni dalla morte di don Vincenzo
- Dettagli
- Categoria: Notizie
- Pubblicato Mercoledì, 10 Ottobre 2012 22:18
- Visite: 2912
Sento ancora la sua voce, lo vedo compiere i suoi gesti, inconfondibili, sull’altare, in sagrestia, all’armonium, lungo la navata della Chiesa, nei meandri della casa parrocchiale, in giro per Miglianico. Sono trascorsi sette lunghi anni da quando, all’alba dell’11 ottobre del 2005, solennità della Mater Populi Teatini, don Vincenzo è tornato nella Casa del Padre ma sembra che questo tempo non sia mai neanche iniziato. E’ vero, vedere con gli occhi del cuore non è vedere la realtà. Ma quanta realtà davanti ai nostri occhi ci parla di don Vincenzo. Quante cose ci raccontano la vicenda straordinaria di un uomo di fede e di opere, un tipo di prete che non era facile incontrare allora e che non sarà facile incontrare nel futuro.
Il mio don Vincenzo non se ne andrà mai.
Tutta la mia infanzia, tutta la mia giovinezza, tutta la mia vita, fino al giorno del suo ricovero, sono stati giorni con lui come Parroco, guida amorevole ma discretissima, consigliere puntuale e lungimirante, uomo dalla cordialità gratuita anche se velata dalla una gran timidezza. Il mio ultimo incontro con lui è stato in ospedale. Non poteva parlarmi ma intendeva bene quel che dicevo. Gli chiesi se aveva avuto paura. Ho avvertito un cenno come un sì. Ma poteva aver paura di quel disagio, che non gli lasciava spazio per il suo fare, il suo incessante fare. Della morte non aveva paura. Questo era scritto nei suoi occhi. Gli dissi che gli volevamo tutti bene e che pregavamo per lui. Lo salutai come avevo fatto con Papà, baciandolo sulla fronte, mai toccata prima, che mi è rimasta sulle labbra, liscia, rotonda, serena.
Mi hanno raccontato – non ricordo bene se Papà o lo stesso autore - che nel dipingere la grande tela per il Fonte Battesimale (largamente ispirata all’opera di Carlo Maratta che si trova in San Pietro) il maestro Demetrio Stefanoff - un altro personaggio che la mia Miglianico non ha mai onorato degnamente - trovò difficoltà a dipingere il volto di Gesù. Il maestro Stefanoff era uomo di fede vivissima, provata da forti vicende umane, e non trovava pace nella ricerca di una perfezione che non riusciva a fissare sulla tela. Fu guardando don Vincenzo dire Messa che colse l’attimo e si ispirò al suo profilo. Che la cosa sia vera o no non importa, quando sono in Chiesa, vado a mettermi sulla destra, e ho davanti il mio don Vincenzo. E continuo a parlarci silenziosamente. Gli confido i dubbi di questo tempo e vorrei che ci fosse per discuterne con lui. Gli porto i racconti delle giornate e delle preoccupazioni per il futuro di questa nostra Comunità. Quasi tutti i miei dialoghi silenziosi con lui sono per chiedergli perdono, non finirò mai di farlo: tanto mi ha dato, tanto poco ho capito, niente ho fatto per compensarlo. Ma quando sto davanti a quel profilo sono sempre sereno, felice, galleggio nell’eternità. Contino anche a dirgli le cose che non mi piacevano e che ancora non mi piacciono della nuova chiesa di San Rocco e cerco di capire perché le ha fatte così. Non ho avuto il tempo di farlo allora. Poi non c’è stato più tempo. Tante cose m’ha spiegato e raccontato, ovviamente tantissime non ha potuto condividerle con me e forse con nessun altro. Non basterebbe un libro, che pur andrebbe scritto per mettere insieme tanti ricordi, tutti i fatti e le opere che possano far conoscere a chi non lo conobbe e per far meglio apprezzare a chi ha avuto modo invece di incontrarlo chi era don Vincenzo.
Tutti e tre i colli di Miglianico non son più stati gli stessi grazie a lui. Su questi dolci curve di quello che ora si chiama skyline della cittadina ci sono i segni concreti dell’impegno di un solo uomo, spesso di un uomo solo. Nessuno ha fatto quel che ha saputo fare don Vincenzo. Dire “ha fatto” significa anche usare il significato letterale della parola: per la chiesa (e non solo per quegli edifici) fece il progettista, il muratore, l’imbianchino, il pignolissimo decoratore, il restauratore, l’uomo di fatica, lo scenografo di teatro, l’elettricista, il falegname, il fabbro e davvero tanto altro ancora.
Le opere, pur grandi, sono solo segni materiali. Invisibili ma più preziosi ci sono i frutti di impegno pastorale e culturale, della silenziosa carità e della instancabile socialità, vivissima e profetica. Rigoroso e obbediente uomo della Chiesa continuamente impegnato nello studio e nell’aggiornamento, don Vincenzo è stato moderno e rivoluzionario, senza vuoti istrionismi, come solo certi personaggi hanno saputo e sanno essere nelle rispettive epoche. Pochi esempi: ci fece organizzare nei locali parrocchiali le prime feste da ballo senza controlli di adulti o estranei quando questo era quasi scandaloso; ci portò in gita anche senza far tappa nei santuari; accettò, credo tra i primi, la messa beat con tanto di batteria sul presbiterio; assolse (don Vince’, lo posso raccontare ora?) una madre di quattro figli che gli aveva confessato d’aver fatto uso di anticoncezionali; mi stupì quando da bambino (eravamo a metà degli anni ‘60), avendogli chiesto se ci si poteva far la Prima Comunione coi pantaloncini corti, mi rispose “in chiesa si viene con l’anima pulita non con i bei vestiti”; si macerò nella lettura degli insegnamenti conciliari che caddero quando il suo percorso sacerdotale era già avviato a maturità; fece servir messa alle bambine anche se non era “consigliato”; dopo averla osteggiata accettò e sostenne l’esperienza neocatecumenale; tolse, a mano a mano, tradizioni locali ammantate di religiosità ma che erano solo superstiziose ed eliminò, una a una, tutte le statue dei santi dalla navata della Chiesa, intronizzando la “Parola di Dio” nella teca che si trova tra il confessionale e l’altare di San Pantaleone; spostò la grande tela di San Michele Arcangelo - sempre del maestro Stefanoff – e mise sull’altare il grande crocifisso che era al suo posto sempre su un’altra grande tela di Stefanoff. Ricordo che, compiuta l’opera, lo trovai seduto al primo banco sulla sinistra che guardava in silenzio il grande Cristo davanti a lui. Era quasi buio e la vivacissima luce dei suoi occhi quasi scompariva nella luminosità di un volto visibilmente estasiato. Al momento pensai che mi diventava un po’ don Camillo e s’era messo lì il Crocifisso per parlarci. Ma fu l’attimo di un sorriso. Mi sedetti dietro lui – eravamo soli nella chiesa vuota e silenziosissima – e dopo un po’, girandosi appena, mi disse, “Vieni”. Mi sedetti al suo fianco. “Guarda che spettacolo! C’è tutta la tragedia del mondo nel movimento del solo panno che cinge Gesù”. Ignorante e insensibile non ci avevo mai fatto caso né mai ci avrei pensato. Ma i miei occhi coperti di sterco si aprirono in quel momento e capii non solo quel che mi diceva ma la profondità di un uomo così innamorato del suo Gesù e così attento nel fare scelte che noi spesso ci limitavamo solo a criticare senza conoscere nessuna delle motivazioni, profondamente meditate e vere che gli le avevano suggerite. Gli dissi solo che due faretti ben nascosti avrebbero valorizzato il tutto e dato il giusto risalto al Cristo. Si girò a frugare intorno con lo sguardo e quasi non commentò il suggerimento. Dopo pochissimi giorni i faretti erano pronti e sottolineò a Trentino la “sua” realizzazione. Anche questo era don Vincenzo.
Era stato modernissimo quando propose e poi realizzò il grandioso progetto della Cooperativa vitivinicola e poi della Cantina Sociale. Era stato lungimirante e coraggioso quando resistette alle proteste che seguirono alla vendita della chiesa di San Rocco, che pure aveva la sua storia, per far aprire quella strada comunale che è oggi l’accesso possibile alla nuova chiesa di San Rocco, che pensò, progettò e poi fece come solo lui poteva fare. Prima di scrivere un lungo articolo per Il Tempo d’Abruzzo, gli chiesi quanto sarebbe costato fare una chiesa nuova. Mi spiegò in sintesi quel progetto che aveva già in mente chissà da quanto e con chissà quanti dettagli già ben delineati. Insistetti e mi disse “un paio di miliardi” (della indimenticata lira): furono di più benché il sopravvenuto cambio in euro nascose un po’ la cifra. Sapevo che i soldi erano la sua ultima preoccupazione e che avrebbe messo prima i suoi soldini, come sempre, prima di chiederne agli altri, mai alla politica. E, lì, sui gradini della tabaccheria, mi anticipò la filosofia del suo progetto:”Vedi, occorre una chiesa più grande, con una migliore esposizione climatica e con una strada d’accesso meno ripida che è un ostacolo per tanti anziani, dalla piazza a lì è quasi in pianura.. Ma occorre che la Parrocchia pensi ai giovani. Lo Stato – mi disse – abbandonerà i giovani. Tutto sarà a pagamento. E se i giovani dovranno pagare sceglieranno altri luoghi, non adatti alla loro crescita. Tocca a noi mettere a disposizione dei giovani teatro, campi sportivi, spazi per i giochi e per stare insieme senza doversi preoccupare di come pagare”. Eravamo a metà degli anni ’80. Tutti gli avrebbero dato del pazzo se lo avesse detto in pubblico. Era pazzo come lo sono geni e profeti. I giovani sono stati sempre nel suo cuore.
La sua pena era quella di dover andare al giudizio finale come albero sterile perché la sua comunità non aveva avuto vocazioni. Non me lo ha mai detto ma certamente in cuor suo coltivava la speranza che uno dei tanti che ha amato come figli potesse entrare in seminario, ma non lo chiese mai né lo suggerì nemmeno a nessuno di noi. Come accadde a tanti personaggi, dopo tante prove, la sua vita terrena fu allungata il tempo giusto perché Dio lo consolasse con quel premio, tanto invocato come consolazione del suo ministero. Ma tutti gli altri giovani anche quando si allontanavano non diventavano mai nemici per lui. Era stato insegnante di religione di quasi tutti noi miglianichesi alle elementari e poi alle medie. Non poteva che conoscerci tutti. E amava tutti. Era la sua timidezza a non farlo apparire amorevole com’era nell’animo. Già, don Vincenzo era timido. Si vergognava a chiedere anche la cosa più banale. E rarissimamente accettava inviti. Capitò che venne a cena da noi perché dovette accompagnare i Padri Missionari che erano quella sera ospiti della mia famiglia. Sapendo della sua passione per il cioccolato (era immancabile a casa sua e tantissimo ne abbiamo avuto da lui in tante occasioni) gli facemmo uno scherzo. Gli chiedemmo quale gelato volesse e lui rispose, per timidezza, che era indifferente. Gli mettemmo davanti un tartufo bianco mentre altri, me compreso, avevano avuto quello al cioccolato. Lui esitava a mangiare il suo gelato. Insomma si stava per sciogliere non solo il suo ma anche quello di chi come me aspettava, sicché insistemmo più volte fin quando disse con voce quasi impercettibile “al cioccolato…”. Scoprii la timidezza di don Vincenzo e me lo rese ancora più vicino, come quando fece a palle di neve con noi sotto casa sua, ovviamente ci bombardò. Non esiste un don Vincenzo monumentale e uno privatissimo. Don Vincenzo era così, un grande, tanto grande, ma la nostra cecità egoistica e criticona non ce lo ha fatto apprezzare e amare in vita per quella che era la sua effettiva grandezza.
Ogni giorno che passa don Vincenzo diventa più grande nei nostri ricordi, nei ricordi e nella confessione di tutti, anche di chi gli fu apertamente avverso.
Non è il cuore di questo discolissimo figliolo a veder male nelle nebbie del tempo e dei ricordi. Tutta Miglianico deve tanto a questo piccolo grande prete. Distaccato dai beni materiali, sobrio nello stile di vita, timido di carattere, don Vincenzo non accetterebbe nessun omaggio formale alla sua persona, benché Miglianico debba fare qualcosa a sua memoria. Spero che Miglianico lo faccia e lo faccia bene, mi verrà così evitata ancora la vergogna dell’ingratitudine della mia Comunità.
Con un sorriso mite, don Vincenzo avrebbe preferito e accetterà la nostra preghiera per questo suo settimo compleanno dal dies natalis nella meritatissima luce della vita eterna.
Maurizio Adezio