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Appunti per una piccola storia locale. Sedicesima puntata. “De Amicitia”

La eliminazione dell’arch. Nando Di Clerico, anche di quell’Amico, senza motivazioni espresse, senza una votazione e senza una dichiarazione chiara imponeva un momento di pausa. Avevamo fatto già troppi danni

Era insopportabile che, ancora una volta, per l’ennesima sera, si facesse scempio della storia personale, dell’impegno, dei sacrifici e anche degli eventuali errori di amici legati al nostro gruppo da anni di partecipazione e presenza.

 

Colsi perciò l’occasione per chiarire come ci si sarebbe dovuti comportare in certi casi, come si sarebbe dovuta fare, in quegli stessi certi, casi l’analisi di un soggetto da candidare, proprio tenendo in maggior conto l’attenzione che andava messa perché quel soggetto era così amico. E lo feci nel modo più diretto, perché era quello che richiedeva il massimo della chiarezza. Ma era anche il più doloroso. Lo feci cioè mettendo il collo sul ceppo del boia, ottenendo una interruzione del nostro discutere per chiedere a Mario Amicone di illustrare più dettagliatamente i motivi della mia eliminazione, senza che fossi stato neppure interpellato o interrogato.

Non mi importava molto che quella esecuzione ci fosse stata, perché mai l’avevo sognata né chiesta né organizzata né inseguita. Ma, comunque, non poteva esser fatta senza fondamento, così come fosse scartare una figurina doppia. Occorreva una discussione tutt’altro che oziosa. Occorreva un chiarimento che fosse utile per far capire a tutti i presenti quali erano stati i criteri e le modalità di certe decisioni e quali invece dovessero essere da quel momento in poi. Nel chiedere questo e per ottenere la giusta risposta proposi una sola motivazione, avanzai un solo titolo: “Dopo tanti anni di militanza, merito almeno cinque minuti di attenzione personale, benché tutta già negativa”.

Ricordai ancora una volta quel che avevo detto più  volte e che, riservatamente, avevo anche scritto, anni prima, allo stesso Mario Amicone. Il concetto era (è) questo: quando si è in presenza di un Amico che non vuole candidarsi, che non lo chiede, che è in sostanza indisponibile a candidarsi ma che fa parte del gruppo, cioè che è considerato Amico, c’è una grande differenza tra il non ritenerlo degno di una candidatura e ritenerlo invece degno di una tale investitura pur sapendolo indisponibile. La differenza è grande, perché sta tutta nella dignità della persona oggetto di valutazione. La differenza è ancor più grande quando questa persona è un Amico.

Aggiunsi ancora con un esempio, riproponendo quella riflessione che avevo già proposto alla valutazione dei miei Amici di storia politica locale. “Se io voto te, ogni volta, sempre e comunque, e tu non consideri nemmeno l’ipotesi che una volta, anche una volta sola nella vita, tu possa votare per me, non solo non si è componenti di una squadra, non solo non si è in condizioni di pari dignità, non solo non si è neppure Amici, ma si è nella distante e discriminante posizione di padrone e di schiavo”.

L’Amico Nicola Mincone sottolineò questo mio richiamo dicendo spontaneamente: “Ora capisco perché lo dicevi”. “Non hai capito niente, Amico mio - gli risposi - La cosa non vale per me, vale per ognuno di noi”. Valeva cioè per tutti quelli, tra i nostri Amici di mille battaglie, che stavamo giudicando, con eccessiva e insopportabile leggerezza, non adatti, peggio ancora, indegni, perché pensavamo che solo alcuni, solo uno o due di noi possano essere degni di esser candidati e di avere il nostro voto. Ecco perché poi facevamo quella macelleria in casa nostra”. Nicola Mincone, sinceramente, ammise che gli avevo chiarito l’esempio e capì che il discorso era di carattere generale non personale.

Mario Amicone, che aveva letto queste mie considerazioni e le conosceva per il loro giusto significato avendone parlato in altre occasioni, impiegò pochissimi secondi per rispondere alla mia domanda e dire francamente: “Se ci tieni a saperlo sei troppo vecchio, troppo impopolare e hai troppi nemici”. Ringraziai, perché Mario Amicone aveva capito che un motivo per accoppare un amico lo devi avere, sennò sa di pregiudizio o, peggio, di nessuna considerazione, di mortale indifferenza, che è il contrario dell’amicizia. Che poi il motivo sia tutto vero, come in quel frangente per la valutazione fatta nei miei confronti, o che sia tutto o in parte infondato cambia poco nell’effetto che ha la decisione di scartare la possibilità di utilizzare quell’Amico come possibile candidato. Ma l’Amico può così accettare l’effetto perché ne conosce il motivo.

Tra gli Amici presenti ci fu chi, non in quella sede ma solo una volta usciti fuori, apprezzò il mio sacrificio, quello di farmi umiliare in pubblico per aiutare tutti a capire come fare certe valutazioni, nella speranza che si sarebbero poi usati criteri chiari, condivisibili e con almeno un qualche minuto in più di attenzione e di giusto approfondimento.

Il giudizio ricevuto, che avrebbe provocato giustificatissime reazioni non delicate da parte di chiunque fosse in quel momento al mio posto ma caldo di ambizione personale, mi lasciò ferito sul piano dell’amicizia ma non su quello dell’autostima, men che mai sul piano della convinzione del mio agire politico. Non ero io in difficoltà - pensai allora e nei giorni successivi - erano loro, i miei autorevoli Amici, a essere in contraddizione con sé stessi. Avere avuto per segretario una persona come me, giudicata così nefasta da loro stessi, è difficile da spiegare se non con un clamoroso caso di schizofrenia politica. Del resto la considerazione che più mi tranquillizzava era che non veniva giudicata inappropriata, negativa e bocciata così sonoramente la mia eventuale capacità di amministratore pubblico e di potenziale rappresentante della nostra Comunità. Questa mia inespressa potenzialità non era stata minimamente considerata e quindi per niente valutata. Questo era assente dalla motivazione tranciante espressa da Mario Amicone.

Era invece proprio quello lo sbaglio fatto per ogni altro Amico eliminato. Perché era (è) quelle capacità amministrativa e di pubblico rappresentante della nostra Comunità che avrebbe dovuto (deve essere) esser imprescindibile quando si andava valutando e si doveva  scegliere chi sarebbe andato ad amministrare la cosa pubblica. Invece il giudizio era stato tutto incentrato sulla sola valenza elettorale.

Insomma, se uno era ritenuto portatore di voti veniva automaticamente ritenuto anche capace di amministrare. La cosa non era e non è vera, drammaticamente, come dimostrano le vicende di tanti soggetti eletti ma capaci poi solo di far disastri pubblici e eccellenti interessi privati.

Fatti accaduti nelle settimane successive mi confermarono questi dubbi sulla schizofrenica valutazione di cui ero stato fatto oggetto io e di cui, ancor più clamorosamente era stato fatto oggetto l’Amico arch. Nando Di Clerico. Ma è un’altra storia. Restiamo al 13 marzo 2009.

Ci fu però un altro motivo che mi aiutò a farmi scivolare sulla pelle quella brutta esperienza senza abrasioni o contusioni. Quella mattina Mamma era stata ricoverata per un problema di una certa gravità, rilevato grazie alla prontezza di alcuni miei familiari. Insomma, ero scosso da ben altra pena. Tra l’altro, il disprezzo di quella decisione, senza nessun sostegno, neanche di facciata, da parte di alcuno dei presenti, mi fu quindi ancor più indifferente, semplicemente perché era previsto. Lo sapevo sin dall’atto della designazione del lunedì sera da parte degli Amici del Direttivo UDC, cui va ancora la mia gratitudine, che essa sarebbe stata poi accolta dalla nostra trinità di autorevoli Amici – rectius, dagli Amici, Mario Amicone e Nicola Mincone – in modo negativo. Anzi, immaginavo che loro, forse, si sarebbero perfino meravigliati poco simpaticamente di una tal proposta o ne sarebbero stati quasi infastiditi.

Mario Amicone, infatti, mi aveva amichevolmente “ammonito” alcuni giorni prima - e lo fece anche in seguito, ma in modo sempre riservato - perché pensava che mi stessi facendo propaganda personale per ottenere la candidatura a sindaco. Aveva ricevuto in realtà la telefonata di un solo Amico, di cui posso ora fare il nome, Claudio Nardone, che gli aveva proposto il mio nome come possibile candidato sostenendolo con motivazioni che non potevano che essere tutte sostenute dal sincero affetto che ci lega sin dall’infanzia. A lui, Mario Amicone aveva già risposto in maniera alquanto negativa. Ma non sapeva che l’Amico Claudio Nardone aveva azzardato quella spassionata telefonata perché sapeva perfettamente che mai avrei fatto una qualunque mossa in contrasto con Mario Amicone restando ancora nel nostro gruppo storico. Claudio la telefonata la fece a mia insaputa. E la sera stessa, con non poco imbarazzo, mi raccontò della sua iniziativa e della risposta avuta, che era a dir poco brutta. Lui ci rimase male e si meravigliò che a me la cosa passava come indifferente.

“Compa’ - mi disse Claudio sfogandosi - mandali a quel paese (traduco liberamente dal miglianichese) e presentati tu. Va a finire che vinci. Comunque ti tiri fuori da …(beh, non ricordo il resto)”. Non era il primo che me lo diceva. Non sarebbe stato l’ultimo a dirlo. Finì che ci prendemmo un secondo caffè e parlammo d’altro.

Quella sera del 13 marzo 2009, non amando le uscite a effetto né ritenendo di alcuna utilità le sceneggiate che avrebbero potuto dar anche l’impressione di voler essere tenuto per forza in una immeritata - e inutile -  considerazione, non mi alzai per andarmene con atteggiamento sdegnato (era venerdì, non c’era neanche il film di James Bond!). Preferii rimanere per vedere come andava a finire.

Col senno di poi - che è anche un perfido ingannatore - posso confessare d’aver sbagliato. Avrei dovuto alzarmi e congedarmi cortesemente salutando tutti uno per uno. In quella primavera mi sarei così riposato un poco e avrei dedicato più tempo alla mia bellissima Famiglia e alle cose che più mi danno gioia. Comunque avrei risparmiato al mio povero animo l’insulto di tanta cattiveria che invece l’ha bersagliato in quella stagione elettorale e, dai mesi successivi, ha continuato a farlo fino ad oggi.

Il dr. Dino De Marco, nel mentre, veniva informato, come ogni notte, puntualissimamente e con dovizia di dettagli. Tant’è che il mattino dopo, di buon’ora, m’attese in piazza, tra le bancarelle del mercato, per dirmi: “Hanno fatto fuori anche te. Ascoltami, riunisci l’UDC e facciamo una cosa insieme”. Incrociandolo avevo pensato che mi volesse chieder come stava Mamma! Sorrisi e tirai dritto dopo aver detto qualcosa senza nessuna importanza né per lui e neanche per me.

Rimasi lealmente nel Comitato. Come me, anche l’altro cadavere, fresco di esecuzione, l’Amico arch. Nando Di Clerico, rimase a sostenere il gruppo dimostrando lealtà e serenità. Ancora una volta fummo poi noi, indesiderati e negletti, coi nostri nomi e i nostri curricula politici accartocciati e calpestati, a ideare (io) e a elaborare graficamente (Nando) nome e logo della lista “Viva Miglianico Viva”, a scrivere insieme il programma e a far un intenso lavoro (fin quando a me è stato concesso) durante la campagna elettorale del 2009.  (16 – continua)

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