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Pasqua, la stessa luce nei ricordi e negli auguri di oggi

Categoria: Notizie
Pubblicato Sabato, 04 Aprile 2015 17:02
Scritto da Maurizio
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La Settimana Santa, tempo forte dell’anno liturgico, è così piena di emozioni che si farebbe fatica a descriverne anche solo alcune, facendolo quindi male, con la consapevolezza di aver dimenticato la maggior parte di esse.
Ho cercato nella memoria di chi è stato maestro, non solo nell’attività professionale, ma nella sua vita intera, come il compianto Cesidio D’Amato, per carpire una sintesi capace di raccontare qualcosa non della Settimana Santa né della Pasqua, ma quantomeno della nostra Pasqua, di quella della nostra Miglianico.
In quel bel volumetto donato tanti anni fa dal maestro D’Amato al mio Papà, ho trovato questa poesia che racconta emozioni, devozione, venerazioni e riti della Pasqua di qualche anno fa.

Portando con me questo stimolo a ricordare, ho percorso tratti della processione del Venerdì Santo, nel ricordo della mia infanzia, che è un tempo intermedio tra quello dei versi e quello della nostra contemporaneità di questo ventunesimo secolo.
Non ho riordinato le immagini che mi sovvenivano ma le ho conservate come commento per gli auguri di questa Santa Pasqua di Resurrezione.
I riti erano più semplici - così li ricordo - ma più sentiti. Quando mi capitò di partecipare alla lettura del Passio mi meravigliava vedere tante donne che piangevano e mi lasciava scosso perché non era una finzione rituale ma era un dolore vero poiché conoscevo tante di loro e sapevo del loro carattere temprato dalle difficoltà della vita. La benedizione delle palme era ripetuta e affollata ad ogni Santa Messa di quella domenica. C’erano anche le palme ben intrecciate e verniciate di oro o di argento che Trentino, indimenticato sagrestano, aveva preparato e messo in un bel cestino.
La Santa Messa in Coena Domini don Vincenzo la celebrava nel tardo pomeriggio, non di sera. Era più semplice e, spesso, senza lavanda dei piedi. C’erano poi “I sepolcri”, cioè la veglia ininterrotta a quello che propriamente è l’altare della reposizione, che cominciava con l’Ora Santa di preghiera dalle 23 alle 24 e proseguiva per tutta la notte e il mattino successivo. Non ho assistito, comunque non ho ricordo della “battitura dei sepolcri” rito dal quel deriva una delle più efficaci minacce delle nostre parti. Devo confessare che, per qualche anno, è stato per noi anche un momento di svago, perché, col pretesto di quella notte da passare fuori casa, si poteva star con gli amici e si approfittava per quelle che erano le piccole trasgressioni del tempo, poca cosa, come un caffè alle tre di notte all’autogrill dell’A14 o due chiacchiere sul piazzale della Chiesa. Ma anche dentro, tra chi c’era, grandi e piccoli, il clima non era sempre di silenziosa e raccolta mestizia.
Il pomeriggio del venerdì santo, dopo aver legato e campane (le corde venivano tirate su e non le vedevi più pendere lungo le ripide scalette del campanile), tutto era rivolto alla Processione. L’orario non era più scandito dalle campane dell’orologio ma dalle “tattavelle”, strumenti sonori fatti di tavolette di legno con intagliato un semplice manico e due su entrambi i lati che, ruotando le tavole, sbattevano e le facevano risonare accompagnando l’annuncio dell’ora fatti dai ragazzi che giravano per il paese. Con una “tattavella” fatta di solo legno, con una tavoletta snodata, si serviva messa e si suonava all’elevazione al posto dell’ormai desueto campanello. A differenza di quella appena vissuta e delle altre degli anni più recenti, che hanno visto grandi cambiamenti dopo lo spostamento della chiesa parrocchiale a San Rocco, il percorso della processione era più breve, ma la processione non durava di meno. C'erano due soste per ascoltare due diverse omelie, una di don Vincenzo e una dell’arciprete, don Francesco Paolo Antonelli, che si tenevano in via Roma, dal balcone dell’allora Bar dello Sport, dove abitavo, e in piazza, dal balcone di casa Mosca. Le omelie erano momenti intensi di catechesi e di richiamo alla meditazione. Cedo che don Vincenzo si sia poi accorto che, tra gente che andava a ristorarsi al bar e chi approfittava per andarsene, erano diventati momenti di distrazione e di disattenzione. E li soppresse. Non c’era il Coro polifonico che abbiamo oggi, ma c’era già l’orchestra, allestita sotto la guida e la cura particolare del maestro Ettore Paolini. Parlo di cura perché quella figura ineguagliata di artista che fu il maestro Paolini, non solo dirigeva l’orchestra, organizzava e guidava le prove, tenute nei locali del suo “Cinema Aurora” in Borgo Forno, dei suonatori, cioè dei Cittadini in grado di suonare il Miserere con uno strumento, ma riusciva a insegnarlo in pochi minuti a qualunque giovanotto di buona volontà che volesse suonare in quell’occasione. Aveva un dono naturale nel trasmettere quell’insegnamento pratico e diretto che mi lasciava stupito. Oggi la nostra bella orchestra ha valenti suonatori, bravi, bravissimi. E, nel vederla schierata in Chiesa, al rientro, ho rivisto tanti che ora non ci sono più: il violino di Mario Fabucci, la chitarra di “Turiddu” Racioppo, il trombone di Mauro Di Federico, il sax di Casimiro “Miminuccio” Volpe, la fisarmonica di Peppino “Uizzardine” Firmani, quella di Faustino Ciccolallo ( “Cacajanne”), il rottofono di Nello Sallustio (capace di suonare ogni altro strumento), le percussioni dell’indimenticato Confratello Ermanno Di Donato e di tanti altri i cui nomi ora non mi sovvengono al comparire dei loro volti, che, senza spartito, pregavano a modo loro così,con quelle dolenti note, il Cristo Morto e la Madonna addolorata. A proposito: la Madonna era per noi più piccoli un piccolo mistero perché veniva vestita in sagrestia da determinate donne con abiti da loro conservati e curati tutto l’anno (non ho mai visto e ho solo questo ricordo). Il Cristo Morto, restaurato direttamente da don Vincenzo non so se sia quello della mia infanzia o sia “l’altro”; infatti ne avevamo due, il più prezioso dei quali fu rubato in una delle visite che ladri alquanto competenti fecero in Chiesa anni fa.
Della processione c’erano poi aspetti in parte rimasti, in parte riemersi e in parte cancellati.
L’ordine era per tradizione, legato alla diversa devozione dei fedeli che seguivano il Cristo o la Madonna addolorata o che seguivano file gestite dai “giuda”, due giovanotti, armati di bastone (eran mazze di scopa) in abito bianco e con ampio cappuccio nero con cordiglio dorato che noi non faticavamo a riconoscere e il cui ruolo era probabilmente retaggio di un antica ritualità poco acconcia, quasi pagana. I ragazzi li chiamavano “Giuda traditore” ed erano momenti tribali, di vera cagnara, più che legati a un evento penitenziale.
La processione passava per vie non illuminate a festa ma con lumini, ceri e attraversando l’inebriante profumo dei bracieri che incensavano il passaggio del corteo.
Lungo via Roma si ripeteva un segno indimenticabile, tornato quest’anno dopo decenni: le due nostre macellerie, “Santìne” e Cascittòne”, che erano una di fronte all’altra, all’altezza della vecchia Chiesa di San Rocco, esponevano all’esterno gli agnelli appena macellati, agghindati con bandierine tricolori infilate nelle carni. Era una richiesta di benedizione, dopo la quale - e solo dopo quella - venivano poste in vendita. Era una lettura semplice ma vera, come tante della genuina tradizione popolare, dei simboli pasquali.
Poi, nel silenzio del sabato, senza altro movimento se non quelli dei preparativi del pranzo pasquale e del via vai con le sartorie per i vestiti della festa inaugurati in occasione delle Sante Messe, e delle teglie portate nei forni per cuocere i tradizionali dolci, si attendeva la notte.
Ricordo che un sabato santo pomeriggio, con gli amici d’infanzia e di scuola, andammo a giocare a calcio, avendo la possibilità per numero (eravamo più del solito) e per la coincidenza di averlo libero di poter fare una partita nel campo sportivo comunale. Al ritorno trovammo Mamme, Nonne e Zie sul piede di guerra che ci fecero una durissima ramanzina, perché in quel giorno di lutto, eravamo andati a giocare al campo. Ci fu anche il simbolico sequestro del pallone, l’unico di cuoio che avevamo. Del resto, il lutto, col suo silenzio, era reso ufficiale e più solenne anche dai programmi di radio e tv. La Rai non trasmetteva i soliti programmi del sabato come “Oggi le Comiche” e i monoscopi non avevano il sottofondo di musica jazz ma di austera musica classica.
La Santa Messa della Resurrezione era molto più breve di quelle che oggi abbiamo imparato a vivere e a godere, anche se a molti pesava, soprattutto ai cosiddetti "pasqualotti", quelli legati al precetto del catechismo di confessarsi e comunicarsi ”almeno a Pasqua”. Don Vincenzo, il più delle volte, non faceva tutte le nove letture, ricordando però nell’omelia questa abbreviazione, e svolgeva in modo succinto, seppur con la dovuta solennità, i riti del fuoco, dell’acqua, del cero pasquale. Non c’erano battesimi in quella notte. Per noi ragazzi c’era il momento indimenticabile dell’attesa nella cella campanaria dove, dopo aver fatto scendere silenziosamente le corde, al primo rintocco dato dal basso, cominciavamo il concerto delle campane a festa suonate a martello. Scendevamo subito dopo, continuando a vibrare, e trovavamo il Cristo Risorto, posto dietro l’altare al quale Trentino aveva tolto il velo azzurro che lo nascondeva prima del Gloria di Resurrezione. In Chiesa, dopo la Santa Messa, nello scambio degli auguri, si sentivano provenire dagli scialli e dalle maglie delle donne i profumi delle cucine; erano odori di ragù e di fritto, di triti e di brodi di carne, di farina e di fragranza di dolci. Era un menù che si spandeva ad ogni passo,ad ogni augurio.
Ci si era impegnati, nei giorni precedenti, non ad acquistare uova dalle svariate miscelature di cioccolato e dai multiformi richiami alle mode correnti, né a far incetta di colombe dalle diverse tipologie, ma a preparare nelle case cuori, pupe, cavalli e fiadoncini, cannelloni, timballi, ravioli e ragù e tanta altra grazia di Dio, che aveva il sapore intenso della rarità che li rendeva ancora più buoni.
Non era ancora entrato il consumismo e nei negozi o nei bar l’offerta dei prodotti industriali era presente ma non massiccia e dozzinale. Nonno Guglielmo ogni anno procurava un uovo di pasqua di grandi dimensioni per addobbare la vetrina del bar. Sapeva che non lo avrebbe venduto, eppure illudeva Nonna Assunta che al solito tavolo, ove i più abbienti giocavano consumando più degli altri, quello sarebbe stato il pezzo sicuramente attribuito al vincitore delle partite pre-pasquali. Ma poi, anche se gli offrivano la giusta cifra, il Nonno non lo vendeva. E mia sorella da bambina, ha più di una foto accanto un uovo di pasqua grande come lei.
Al lunedì dell’Angelo per noi c’era la Festa di Sant’Antonio Abate e Cerreto, semplice, bella, profumata di porchette e noccioline, animata dall’albero della cuccagna. Poi venne il tempo di scampagnate e gite sempre più fuori porta.
Insomma qualcosa è cambiato. È cambiato non solo per persone e personaggi che non ci son più, non solo per il percorso della Processione, non solo per il ritorno pieno di riti religiosi che ci offrono maggiori motivi di riflessione e contemplazione del Dio fatto uomo e ristoro per noi. È cambiato semplicemente perché il tempo passa e stende sottili sfoglie di piccoli mutamenti che non nascondono nella memoria quel che è stato e non tolgono al nostro ieri la stessa luce della Pasqua.
È la luce, è l’energia che promana dall’esplosione di amore che ha rovesciato la pietra del sepolcro di Gerusalemme e si stende, allora come oggi, illuminando la via della vita eterna agli uomini di buon volontà.
Buona Pasqua, care Amiche e cari Amici di Viva Miglianico.