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La letterina del sabato 21 ottobre

Care Amiche e Cari Amici

voglio condividere con voi due riflessioni che hanno segnato l’inizio e il termine di questa settimana appena trascorsa. Sono frutto di discorsi sviluppatisi in momenti solo temporalmente diversi ma ambedue caldi di amicizia e cordialità. 

Vado rapidamente a ritroso, incontrando la più recente, quella carica di bei ricordi e di una saggezza apparentemente popolaresca rispetto all’altra, distante qualche giorno più indietro, solo apparentemente più colta.

Attorno al luminoso tavolo di una fantastica conviviale accademica discutevo con un vecchio amico di quelli che sono i presidi della nostra vita, di quelle regole che hanno retto le nostre comunità con poche ma efficaci parole. Non stavamo filosofeggiando. Stavo solo narrando che, se potessi esser ascoltato ad esempio dai solerti e ammirevoli dirigenti della Pro Loco, userei queste tre frasi (anzi quattro), una in particolare, per caratterizzare una felpa col marchio Pro Loco da vendere per ricavare un aiuto alla attività di questo nostro irrinunciabile sodalizio. 

 

Il mio amico, tra un piatto fantastico e un altro eccezionale, s’è poi messo a digitare qualcosa sul suo smartphone, stava inviandole a ‘Nduccio. Chissà che non le ritroveremo in una delle sue performance artistiche già nei prossimi mesi.

Dicevo che le prime tre regole organizzative sono racchiuse in altrettanti motti.

Il primo è forse il più conosciuto: "Attàcche l’asine a ddò dice lu padrone". Sembra una regola lontana dalla tenace volontà abruzzese di fare e di progredire, appare quasi un atteggiamento servile, rinunciatario, detto a chi ha il capo chino. Invece non è così. Scolpisce l’efficacia immediata di una gerarchia delle decisioni che, se applicata ancor oggi in certi settori, consentirebbe, da un lato, una grande efficienza operativa e, dall’altro, l’individuazione chiara delle responsabilità. A rifletterci, è una indicazione molto moderna, alla base di un auspicabile futuro se si considerano gli scenari attuali soprattutto nel settore della pubblica amministrazione e della politica.

Il secondo motto è il più simpatico"Cummànn’e fàttele". Due imperativi indicano il metodo perfetto per ottenere il risultato sperato. Quante volte siamo stati assillati da ordini, seguiti da disposizioni e, subito dopo, dalle indicazioni precisissime, quasi assillanti su come fare una cosa secondo i desiderata di chi ce la commissionava. Chi non è in grado di indicare un compito, vuoi perché non lo sa fare, vuoi perché pretende che altri agiscano esattamente come chi li comanda, annullando la propria personalità con quel che contiene di creatività, abilità, perizia o anche limite operativo, è bene che faccia da solo. Ama il suo pensiero e non accetterà mai quel che chiunque altro pensa e fa. La differenza sta nel tempo e nelle energie risparmiate per ottenere il risultato più desiderato, senza metter in mezzo asprezze, amarezze e raggiri. Piuttosto che star lì a dire e ridire e ri-precisare si fa prima e meglio a fare. 

Il terzo motto è davvero il più bello anche dal punto di vista della forza comunicativa che contiene e che, a mio parere sarebbe facilmente compreso e gradito anche da chi non sa neppure dove sia l’Abruzzo: "E pècché? Esse Pècché!". Non è una mera stroncatura del libero pensiero né la brutale sordina alla giusta curiosità. È molto di più. È l’affermazione del primato di chi ti chiede di fidarti. È l’arresto preventivo al perder tempo in chiacchiere e dubbi. È il richiamo ad accettare la cosa detta o la cosa da farsi senza frapporre scuse e sfumature che il tempo della concretezza non poteva, non può mai ammettere. Era - è vero - anche la demarcazione del potere gerarchico in ambito familiare e non solo. Quando da bambino chiedevo un perché e mia Nonna Assunta mi rispondeva così sapevo, avendolo appreso dal dolore fisico delle pianellate che mi aveva già dato, che il secondo perché non avrebbe avuto risposta orale. Oggi, lo ripeto, in questo periodo di facili slogan, questo che pure è pregno di significati, funzionerebbe per la sua immediatezza verbale e la sua sonorità data dal ritmo della secca ripetizione.

Aggiungo tre lettere, non un motto, appropriatissime a questa semplificazione organizzativa che c’era, che è stata la cinghia di trasmissione della tenace volontà di progredire dei nostri avi e genitori, e che dovremmo in un qualche modo recuperare. Le tre lettere si fondono in una sillaba scultorea: Gno’. È la sintesi della sintesi. Viene da "Signorsì Signore", risposta cortese o deferente e obbediente a seconda della persona alla quale veniva rivolta. In queste tre lettere c’è la prontezza della risposta senza sviamenti o scuse, c’è la cortesia sobria e senza inutili fronzoli cerimoniosi, c’è la sincera disponibilità d’animo ad ascoltare, senza frapporre condizioni, o la disponibilità al fare, al collaborare. 

Gno’ è bello. 

Nella sua accezione positiva appena descritta è il motto della Miglianico che vorrei, lo slogan dell’Abruzzo che potrebbe davvero diventare protagonista del suo futuro restando saldo nelle sue radici più vere.       

Ma anche se così non fosse, confesso che, tra tanti inglesismi e cineserie, un motto tutto nostro potremmo stamparlo con orgoglio e simpatia su una t-shirt o su una felpa. L’Abruzzo è anche la sua tradizione orale, eccome.

Una t-shit con su scritto Gno’ potrebbe essere indossata da chiunque, anche distante anni luce dall’abruzzese. Lo potrebbe pronunciare senza difficoltà chi è anglofono, chi parla arabo, chi ha difficoltà a pronunciare la erre, sia francofono o originario del lontano oriente, chi parla inuyt o qualunque lingua africana. Chissà, lasciatemi dire questo sogno da chiacchierata con Amici, potrebbe diventare la parola abruzzese più pronunciata al mondo.

A proposito di parole vengo subito alla seconda riflessione. È collocata all’inizio della settimana passata, ma non l’ho lasciata lì. È sorta nel corso di una occasionale e amabile discussione incentrata sulla forma di procedure fuori dal tempo e dalla nostra civiltà giuridica, come possono essere quelle proprie di un tribunale speciale d’altri tempi. Tra le dotte osservazioni e i saggi riferimenti che ho avuto la fortuna di ascoltare, mi ha colpito il riferimento alla Fama. Non è quella che state ora pensando. È la strana creatura, un mostro alato con infinite orecchie e innumerevoli bocche e lingue, risalente alla mitologia classica. Essa sarebbe stata generata da Gea, la dea Terra, per la rovina degli uomini. Gli antichi nella personificazione dei loro Dei si sbizzarrivano ad immaginare, e poi a creder come veri, personaggi o animali dalle strane fattezze per affidare loro i diversi ruoli esemplari di quelle culture. La Fama era questo mostro che volava di notte raccogliendo voci, vere o non vere, diffondendole a grande velocità. In realtà la presenza della Fama non è frequente nei racconti mitologici ma compare sicuramente nell’Eneide di Virgilio, nel canto di Didone. Il richiamo alle pagine liceali è quello che naturalmente mi ha tenuto presente questo riferimento.

La riflessione non è legata ai ricordi del Liceo, bensì all’ammonimento che, attraverso la mitologica Fama, in quel momento veniva messo al centro della simpatica discussione con la relativa spiegazione. È vero che le parole dette rischiano di essere semplicemente scagliate in modo incontrollato e spesso vagano e colpiscono anche laddove non le si voleva indirizzare, questo è il senso dell’ammonizione. Ma è vero che la Fama e la sua evoluzione locale, la pettelarije, cioè il pettegolezzo, il vocio continuo, il chiacchiericcio o come lo vogliamo chiamare, sono ben altra cosa rispetto a quel che si andava discutendo in quella riunione di ottimi amici. 

A differenza delle parole partite dalla bocca, scagliate o anche solo delicatamente diffuse, che diventano incontrollabili, le parole scritte hanno un’origine certa e, se ben scritte, hanno ambiti di efficacia ben delimitati e riconoscibili. A differenza delle parole dette, quelle scritte non sono travisabili perché non sono distorte, contorte o stravolte dalla velocità del loro diffondersi incontrollato, quello rappresentato del velocissimo volo della Fama. Le parole scritte possono esser travisate solo da voluta mala fede. Essa le può estrapolare e utilizzare malevolmente per i propri fini di speculazione e di strumentalizzazione. Chi è in mala fede e chi ha pregiudizi le può utilizzare togliendole dalla lettura naturale e collocarsele in bocca, narrandole come se le avesse ascoltate e non lette, sfuggendo volutamente al riferimento testuale. 

Lo scritto ha sostituito la parola per ben motivate ragioni. La parola data contava tutto. Quando è intervenuta la mala fede, quando le divisioni hanno accecato con il pregiudizio gli uomini, quando il denaro e gli interessi materiali hanno corrotto il significato delle parole, allora l’uomo si è affidato allo scritto che è stato utilizzato per metter i patti al sicuro, per trasmettere il pensiero senza intermediazioni orali, per far rimanere affermazioni e descrizioni intatte nel tempo così come l’autore le ha fatte. 

Su questo spazio di libertà le parole sono scritte (e sottoscritte) proprio per questo. Il che accresce la colpa dell’autore, ma solo di quello, quando le parole colpiscono ingiustamente, il che può essere dimostrato appunto leggendo le parole scritte così come sono state scritte e non raccontate.     

La Fama, il mostro dalle tante orecchie e dalle innumerevoli bocche e lingue, generato per la rovina degli uomini, vola nelle notti di altri cieli. 

Buona Domenica.                  

  

     

 P.S.

Questo è il brano tratto dall’Eneide di Virgilio nel quale è descritta la Fama. 

 

È questa Fama un mal, di cui null'altro 

è piú veloce; e com' piú va, piú cresce; 

e maggior forza acquista. È da principio 

picciola e debil cosa, e non s'arrischia 

di palesarsi; poi di mano in mano 

si discopre e s'avanza, e sopra terra 

sen va movendo e sormontando a l'aura, 

tanto che 'l capo infra le nubi asconde. 

  Dicon che già la nostra madre antica, 

per la ruina de' Giganti irata 

contr'a' celesti, al mondo la produsse, 

d'Encèlado e di Ceo minor sorella; 

mostro orribile e grande, d'ali presta 

e veloce de' piè; che quante ha piume, 

tanti ha sotto occhi vigilanti, e tante 

(meraviglia a ridirlo) ha lingue e bocche 

per favellare, e per udire orecchi. 

Vola di notte per l'oscure tenebre 

de la terra e del ciel senza riposo, 

stridendo sempre, e non chiude occhi mai. 

Il giorno sopra tetti, e per le torri 

sen va de le città, spïando tutto 

che si vede e che s'ode: e seminando, 

non men che 'l bene e 'l vero, il male e 'l falso 

di rumor empie e di spavento i popoli. 

Questa, gioiosa, bisbigliando in prima, 

poscia crescendo, del seguíto caso 

molte cose dicea vere e non vere.

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